Viaggio in Giappone, primo tempo: Tokyo, Monte Fuji e Kamakura

Sono appena rientrata da un viaggio di due settimane circa in Giappone. I 2 terabyte di foto e video che ho prodotto mi stanno lentamente prosciugando la memoria del computer. D’altra parte torno da uno dei viaggi più importanti della mia vita ad oggi, in un Paese che davvero è molto difficile descrivere in modo sintetico.
Mentre lo attraversavo nelle sue mille stravaganze, contraddizioni e spettacolari bellezze, immaginavo con impazienza il momento in cui avrei scritto questo diario. Ora che sono qui, mi sento un po’ sopraffatta! Voglio però ripercorrere questa esperienza in modo puntuale e ricco di dettagli, per dare tutte le risposte a chi mi ha sommerso di domande e soprattutto perché resti un racconto il più nitido possibile di questo frullatore di emozioni che abbiamo vissuto e che vanno riordinate e protette dalle tarme del tempo.
Partiamo dal principio: è un viaggio che inizia a casa, e con largo anticipo! Abbiamo prenotato i voli a dicembre per giugno con Eva Air, maggior compagnia aerea privata taiwanese del Gruppo Evergreen, con cui si viaggia a buoni prezzi e buona qualità. Pasti, accessori, cuscini, coperte, video, intrattenimento, tutto curato e orari dei voli molto comodi. Il fuso è di 7 ore, per 18/20 ore circa di viaggio compreso lo scalo a Taipei. Siamo arrivati a Tokyo a ora di pranzo, un buon orario che permette di tirare con facilità fino a sera e riprendere subito il ritmo rispetto al fuso. Rientro ottimo, con partenza da Osaka all’ora dell’aperitivo e arrivo a Milano la mattina alle 8, piuttosto riposati dopo una lunghissima notte abbarbicati sulle poltrone poco reclinabili della carrozza povery.

Appena arrivati all’aeroporto di Tokyo Narita, abbiamo:
- attivato le sim elettroniche acquistate pochi giorni prima di partire su Holafly: 6 euro circa al giorno per un traffico dati illimitato che permette di mantenere anche la sim principale attiva e, quindi, di chattare o chiamare casa via What’s App. Consigliatissima, ottima ricezione ovunque e prezzo più che onesto;
- attivato le Suica card, IC Card che permettono di viaggiare sui mezzi metropolitani e che abbiamo usato in tutte le tappe del nostro tour; si ricaricano man mano nelle stazioni o nei conbini (i famosi negozietti 7-eleven, aperti 24 ore su 24 e disseminati ovunque, dove si può anche prelevare da comodi ATM);
- attivato il Japan Rail Pass: non è più conveniente come una volta ma è possibile verificare se vale la pena farlo calcolando i costi delle varie tratte con il JR Fare Calculator. Lo abbiamo utilizzato per coprire i giorni con gli spostamenti più importanti tramite i treni veloci Shinkansen tra Tokyo, Kyoto, Hiroshima e Osaka. Va acquistato qualche giorno prima in Italia: i documenti arrivano in circa 24 ore via FedEx e vanno poi convertiti nel pass vero e proprio direttamente in Giappone in un ufficio JR (si trovano all’aeroporto o nelle principali stazioni). Noi lo abbiamo acquistato con Japan Experience e tutto è filato liscio come uno shinkansen.
Tokyo è una città immensa, con circa 14 milioni di abitanti; ci siamo fermati 6 notti, con 3 giorni e mezzo dedicati alla metropoli e 2 gite fuori porta che consiglio vivamente per spezzare l’abbuffata di follia del centro. Si trovano alberghi molto convenienti per rapporto qualità prezzo (il nostro Alto Adige ha prezzi da Dubai a confronto). Siamo stati molto bene al Daiwa Roynet Hotel Nishi-Shinjuku Premier, che si trova in ottima posizione in uno dei quartieri più vivi, Shinjuku, a pochi passi dalla stazione della metro Nishi-shinjuku e a circa un chilometro dall’omonima stazione da cui partono o passano tutti i principali treni della città.
Un inciso sulla metro di Tokyo, è vero quello che si legge: quando guardi per la prima volta la mappa (è possibile scaricarla qui) ti prende un colpo, ma bastano pochi minuti per comprenderla e muoversi con estrema facilità. Le stazioni sono infatti numerate e quindi è davvero difficile sbagliare direzione. La cosa più complessa resta individuare l’uscita giusta all’interno delle labirintiche stazioni più grandi, ma Google Map banalmente risolve ogni problema. Come ci si aspetta, tutto è ordinato e puntuale: i treni arrivano spesso in anticipo per permettere agli addetti alle pulizie di dare una sistemata tra una tratta e l’altra. Spostarsi è sempre stato piacevole, facile e tutto sommato a buoni prezzi, più o meno in linea con quelli italiani (per un servizio però decisamente superiore!). Per ogni problema ci sono addetti ovunque che non sempre sanno l’inglese (in media, male come noi!) ma da cui è comunque sempre piuttosto semplice farsi intendere.
Abbiamo visitato questo immenso micro cosmo che è Tokyo per quartieri, a partire da quello del nostro albergo, Shinjuku appunto, famoso per l’incrocio con l’insegna del gatto in 3D che miagola ai passanti… e questo dà un po’ la cifra dell’esperienza Tokyo: una città dove i punti di maggior interesse rischiano di essere grandi magazzini, insegne e incroci pedonali. Dopo questa vacanza mi sono riguardata Lost in Translation di Sofia Coppola che, alla prima visione, ricordo aveva avuto un effetto soporifero su di me: rimane un film lento e molto “interiore”, ma ora l’ho sentito davvero. Tokyo è effettivamente straniante come vuole trasmettere il film, e ti lascia in sospeso tra la realtà, qualcosa di accogliente, familiare e conosciuto, e un’irrealtà fatta di parole non capite, rumori nuovi, persone diverse, eccessive informazioni che è impossibile processare bene, tutte insieme, subito, in pochi giorni. Credo sarebbe meraviglioso viverci qualche tempo, scoprirla e capirla con calma. Così, de botto, lascia un po’ confusi, ammaliati eppure distaccati, perché anche se riesci solo a surfare superficialmente su tutto, puoi comunque intuire che, se avessi tempo e spazio da dedicarle, questa città ti entrerebbe sotto la pelle, come fanno i kami nei film di animazione di Miyazaki.

La cosa che forse più mi ha colpito di questa metropoli è che permette di passare in pochi passi dagli incroci più frequentati del pianeta, frullatori rumorosissimi in cui suoni, musichette, comunicati pubblicitari, voci e luci ti travolgono i neuroni, a interi chilometri di minute stradine laterali praticamente deserte, dove si sentono solo gli uccellini cantare, passano silenziose le macchinine giocattolo 3×2 tipiche dei giapponesi e puoi gustarti un perfetto dolce locale o un ottimo caffè italiano nella pace più assoluta.
Ma il Giappone è un po’ bipolare in generale: quiete e terremoti, minimalismo e accumulo compulsivo, urla e versetti da gattino. I giapponesi suonano il clacson, alzano la voce, possono essere parecchio scorbutici se sbagli o fai perdere loro tempo, succhiano i noodles come idrovore ma non si soffiano il naso in pubblico (anche se tirano rumorosamente su!), non parlano (quasi mai) sulla metro, non mangiano mai per strada e ti ringraziano con l’inchino per ogni cosa: imparata l’espressione “arigato gozaimasu”, che significa “grazie” in modo formale e si pronuncia arigato gosaimaaaaaaas, un po’ cantilenata, accompagnata da un piccolo inchino del capo, ci si può tranquillamente trasferire in Giappone! Il più e fatto!
Forse è stato il tratto più caratteristico di tutto il viaggio: essere salutati con inchini e ringraziamenti continui, ad esempio quando si scende dall’autobus, uno a uno, o alla chiusura del centro commerciale, quando tutti i dipendenti si fermano e salutano, uno a uno, ogni cliente che finalmente si leva dalle palle, e così alla chiusura della metro, e ancora nei comunicati registrati dei treni; arigato gosaimaaaaaaas è la colonna sonora del Giappone! Altra cosa utile: quando pagate o ritirate il resto, oltre all’inchino e al ringraziamento cantilenato, usate sempre due mani per porgere/prendere soldi, biglietti e scontrini, tenendoli in orizzontale rispetto al sorridente giapponese che vi sta di fronte; anche questo fa parte del pacchetto cortesia!
Ma torniamo a Shinjuku va, che qui facciamo notte, già lo so… Nella zona dei grattacieli, importante centro amministrativo e commerciale, sicuramente vale la pena salire al volo, gratuitamente, su una delle due torri del Tokyo Metropolitan Government Building per iniziare il viaggio con una vista a 360 gradi della città, che nei giorni più limpidi permette di vedere anche il Monte Fuji (noi abbiamo scelto la Sud, perché non c’era coda ma solo un divertente siparietto di due “controllori” anziani che facevano finta di perquisirti lo zaino con gesti e vocalizzi tanto teatrali quanto poco efficaci).

Se a Shinjuku di giorno spicca l’anima amministrativa, ordinata e imponente dei grattacieli, la notte il quartiere esplode di luci e colori , soprattutto nella confusionaria Kabuki-cho che offre una miriade di ristoranti, bar, club, karaoke e locali notturni.
Da non perdere l’esperienza di una cena in uno dei mille izakaya in cui si rintanano i salaryman dopo il lavoro, minuscoli pub old style dove si sbevazza allegramente piluccando principalmente yakitori (spiedini) di pollo, maiale, verdura, pesce. Si trovano in alcuni vicoletti nascosti di Shinjuku: Omoide Yokocho, più turistica, dove si possono mangiare arrosticini a volontà, sopravvivendo alle precarie condizioni igieniche (viene tutto praticamente incenerito sulla griglia, quindi gli effetti sulla salute sono solo a lungo termine); più verace, il reticolo di Golden Gai, popolare angolo cittadino noto per i vicoli stretti e tortuosi e le numerose micro taverne, dove è possibile immergersi in una Tokyo nostalgica molto pittoresca e, giustamente, non sempre accogliente verso il turista wonna be influencer (meglio mettere via il cellulare se si vogliono trovare posto e sorrisi).



A dispetto delle immagini, in cui sembra tutto piuttosto caldo e opprimente, in molte di queste taverne si gela: i lavoratori giapponesi dicono no al sudore, sparandosi addosso aria ghiacciata da enormi split, oppure indossando direttamente divise speciali dotate di ventole che permettono di lavorare avvolti da una membrana di aria fresca. Esistono anche divise munite di strisce di luci intermittenti per chi lavora nei cantieri. Altro che i nostri poveri addetti kamikaze con palette, bandierine e cotti dal sole!
Il secondo giorno lo abbiamo iniziato ad Harajuku, quartiere della moda giovanile, dove, dopo una breve passeggiata in quello che potremmo definire bosco, si può godere della bella vista del recente santuario shintoista Meiji Jingu. Qui abbiamo appreso il cerimoniale con cui approcciarsi a questi luoghi, non senza qualche gaffe, anche se è tutto spiegato… per chi legge con attenzione! Una cosa che balza all’occhio è che tutto, intorno a templi e santuari, passa attraverso i soldi: 100 yen, 300 yen, 500 yen… pochi euro sono richiesti per fare ogni cosa, pregare, lasciare tavolette votive, accendere incensi, ecc. Diciamo che le vibrazioni sono molto terrene e, complice l’affollamento – seppur sostenibile -, è difficile entrare in una vera connessione spirituale con i luoghi sacri della metropoli.


E, infatti, poco dopo siamo di nuovo risucchiati nel vortice della follia nipponica: Takeshita Dori, strada pedonale consacrata allo shopping di abiti e gadget stravaganti, e Omotesando, la grande strada alberata ricca di negozi e centri commerciali immensi. Noi in particolare siamo finiti nel girone dantesco di Kiddy Land, inferno dei pupazzetti Sanrio e tempio della plastica.
Già, la plastica! Sigh. Il Giappone impacchetta ogni cosa nella plastica. Cibo, oggetti, pezze e pezzette di plastica, dentro sacchetti di plastica, all’interno di scatole di plastica… Il cibo è inscatolato nella plastica in tutti i modi possibili, ogni minimo pasto, caffè compresi, viene accompagnato da salviette igieniche cellofanate, se piove devi metter l’ombrello nel sacchetto di plastica, in albergo ci sono infiniti gadget plasticosi implasticati.
Il principale ostacolo alla riduzione dell’uso della plastica nell’imballaggio risiede proprio nella cultura giapponese, a partire dal concetto di Omotenashi, impossibile da tradurre letteralmente in italiano, che si riferisce genericamente all’idea di ospitalità: più un prodotto è impacchettato, più traspare la cura sia verso il prodotto stesso sia verso il cliente, che può avere la percezione di fare un acquisto di maggior qualità. Ma le cose iniziano a cambiare anche qui, così come i clienti, che non più – o non sempre – vivono questi strati di plastica come una coccola.
Non è vero che non esistono bidoni per strada, si trovano ma solo in punti strategici, in certi incroci, nelle stazioni ad esempio, e in ogni locale puoi chiedere di lasciare imballaggi vuoti (bottigliette/bicchieroni) anche di altri negozi e ti accontentano cordialmente. La gestione dei rifiuti nei luoghi pubblici è basica: bottiglie di plastica, tetrapak e lattine di alluminio da un lato, carta dall’altro, tutto il resto nel “combustibile”, ovvero destinato agli inceneritori. Pare che non resti che cenere, riutilizzata nell’edilizia, e gas filtrati mooooolto bene. D’altra parte, non vedo alternative… non ho idea di come facciano anche solo a movimentare tutti i fantastilioni di tonnellate di minchiate di cui si circondano. Mistero e magia nera.

A proposito di minchiate, noi abbiamo acquistato qualche souvenir – ma c’erano anche bellissimi yukata (indumento leggero, di solito in cotone, tradizionale giapponese) – da Oriental Baazar. Ci siamo quindi ripresi dal trauma di Kiddy Land (e scaldati la pancia, perché nell’inferno della plastica ci sono 18°) con un’ottima tonkatzu, la tipica cotoletta giapponese di maiale nero, da Tonkatsu Maisen Aoyama: 24 euro in tre per un delizioso pasto completo al bancone con riso, brodo di miso e tè a profusione! Super!
Ecco, posso serenamente dire che – partendo da Trento – non ho percepito il Giappone come caro, soprattutto a Tokyo: abbiamo sempre trovato prezzi accessibili e molto spesso meno cari dei nostri, soprattutto nei luoghi meno turistici.



Sempre a piedi, abbiamo quindi raggiunto il quartiere di Shibuya all’ora del tramonto, famoso per l’attraversamento pedonale più affollato del mondo; e niente, anche noi lo abbiamo attraversato più volte, cellulare alla mano, come beoti! Un’esperienza assurda che rientra nelle linee guida del turismo instagrammabile 4.0.



È qui anche la statua del povero Hachiko (di cui conosciamo la storia grazie a Richard Gere) con annessa coda per altra foto da instagrammare, e il centro commerciale Mark City, dove abbiamo concluso questa giornata di alto spessore culturale con un giretto nel negozio di cibo Shibuya Tokyu Food Show e un’ottima cena da Sushi no Midori che, come molti ristoranti veloci giapponesi, gestisce la coda con una biglietteria automatica; mangiare in Giappone è sempre una bella esperienza, per chi ama i loro gusti, ma non sempre rilassante: i locali sono spesso pieni ed elaborano clienti e ordini a ciclo continuo senza soluzione di continuità, per cui di solito attendi un po’ in coda ma, quando ti siedi, vieni servito velocemente e, possibilmente, ti levi dalle palle alla stessa velocità!
Ormai ubriachi di luci, plastica, cibo e rumori, ci siamo dati la mazzata finale facendo un giro in un Don Quijote, catena di enormi conbini con infiniti piani, tutti stracolmi di tutti i prodotti di più o meno dubbia utilità che la mente umana abbia mai partorito… tipo la fiera di Santa Lucia ma allestita nella via Lattea. Allo stremo, ci siamo finalmente diretti a piedi verso l’albergo e, giuro, in poco meno di 3 passi ci siamo ritrovati immersi nel silenzio più totale, lungo strade ordinate e pulite, semi deserte: 5 chilometri di passeggiata al fresco della sera, sgranocchiando di nascosto qualche canelés, dolcetti francesi molto amati a Tokyo, fuori croccanti e caramellati, dentro morbidi, simili a una crème caramel molto cotta.
Ho scoperto infatti che il Giappone è il paradiso per chi, come me, adora i dolci a base di uova: la castella cake, una sorta di pan di spagna giapponese che amano produrre in ogni forma, sempre maniacalmente perfetta (a roll, quadrata, a lingotto, a forma di onda, di banana, di Hello Kitty…); le chiffon cake, variante nuvolettosa del pan di spagna; i canelés appunto, farciti e decorati in mille modi; 5mila sfumature di pancakes, dai dorayaki in mille forme – dalla faccia del buddha a quella di Snoopy – farciti con creme varie e soprattutto con la famosa e onnipresente bean paste – pasta di fagioli dolce – alla versione fluffy, nuvolette accompagnate con ogni ben di dio; e infine i pudding, crème caramel in varie salse che si trovano a volontà anche confezionati nei frigo dei conbini. Amano anche un’altra mia fissa, ricordo d’infanzia, la frutta caramellata: fragole, uva, mele ricoperte di croccante caramello colorato, vendute per strada come succedeva a Trento quando ero piccola in via del Suffragio, quando il papà mi, e si, comprava le caldarroste caramellate… e arriviamo all’amore per le castagne, altro indizio che mi porta a sospettare di essere stata una giapponese nella vita precedente! Ci sono molti negozi specializzati, con creme e mochi alla castagna, che propongono caldarroste anche in estate, perfette per affrontare al meglio le giornate da 35° con tasso di umidità del 90%. Ocio però, perché se provate a mangiarle per strada o a buttare le bucce per terra, vi fanno fare la fine di Pierugo della signorina Silvani.
Sempre a proposito di cibo, e di plastica, merita una citazione la mania locale di riprodurre i cibi proposti per illustrarli ai clienti in modo dettagliato: una sorta di menù in 3 dimensioni! Dai chioschi ai ristoranti, fino ai negozi di dolci confezionati, in ogni esercizio che somministra cibo si trovano tonnellate di riproduzioni perfette in plastica di quello che viene servito, tanto che alle volte si fa fatica a distinguere i fake dal cibo vero. Fanno particolarmente impressione i chioschi di yakitori, dove veri e propri muri di finti spiedini sono accatastati davanti alle griglie e a stento si riesce a sbirciare cosa davvero stiano arrostendo lì dietro! Un altro dark side of the Rising Sun… forse è più facile presentare plastici che imparare l’inglese?



Il terzo giorno, visto il meteo favorevole, abbiamo preso il treno che da Shinjuku porta alla stazione di Otzuki, verso il lago Kawaguchi: obiettivo l’instagrammabilissima Pagoda Chureito con vista sul Monte Fuji. Dalla stazione di Otzuki, si prende poi la Fujikyu Railway Line fino alla stazione Shimo-Yoshida, da dove, in circa 10 minuti, si arriva al Santuario Sengen Arakura e, percorrendo 400 scalini, finalmente al belvedere accanto alla pagoda, alta 5 piani e caratterizzata dai classici decori rosso vermiglio.
Ed eccoci anche noi nel limbo dei selfie, a fare tetris con le teste degli altri turisti per scattare la foto più uguale a quella di tutti gli altri. Pochi metri sopra la pagoda, è per fortuna possibile riposare le stanche membra e l’iPhone all’ombra di una pergola, con vista aperta sul Monte Fuji, senza rompiscatole attorno. Impagabile: l’incredibile imponenza del vulcano, la foresta colorata di aceri, le scimmie che saltellano da un ramo all’altro, le lanterne di legno e pietra, il muschio lussureggiante. Gita virale promossa a pieni voti.







Abbiamo quindi fatto un giro nella località sottostante, caratterizzata dalla pittoresca strada centrale in cui il solito groviglio di cavi elettrici – onnipresente in ogni strada del Giappone – si staglia sulla maestosa sagoma del Monte Fuji, e preso il treno per rientrare a Tokyo (ci vogliono circa due ore e mezza tra una cosa e l’altra). A cena, piccola esperienza divertente che rifarei, abbiamo mangiato da Ichiran Ramen, una catena che propone ottimi ramen serviti in stanze interrate dove ogni cliente mangia sul suo tavolino singolo, covid style, con i cuochi nascosti da una tendina che si palesano solo sotto forma di braccia che portano scodelle di ramen e voci che recitano brevi omelie di buon appetito – o forse insulti, chi lo sa! – Di certo hanno detto arigatoooogosaimaaaaassssss!



Il giorno dopo siamo andati al mare perché il meteo dava la giornata più bella e calda, nella famosa Kamakura, a circa un’ora di treno da Tokyo; centro politico del Giappone nel Medioevo, oggi è una piacevole località balneare, ricca di templi buddisti e santuari shintoisti, ma forse ancora più famosa per le mille sfumature di street food che si possono gustare lungo la sua pittoresca Komachi Dori: siamo arrivati a stomaco vuoto e in poco più di un chilometro abbiamo mangiato gyoza al vapore, pane al curry piccante, crème caramel e caffé italiano, mochi glassati alla soia e con la pasta di fagioli e castagne, mini castella a forma di pandino ripieni di pasta di fagioli, il tutto irrorato con abbondante birra Kirin.
Non prima però di aver fatto un timbro e un giro nel Ghibli Store che si trova all’inizio della via: in tutto il viaggio ne abbiamo incontrati parecchi e io e Chiara li abbiamo visitati tutti! Meravigliosamente traboccanti di ogni tipo di ninnolo a tema film di Miyazaki.






Dopo questa sana ed equilibrata colazione, abbiamo visitato il Santuario Tsurugaoka Hachimangu, complesso che si trova in posizione rialzata, in cima a una scalinata, in cima alla Wakamiya Oji, la bella via principale che collega il santuario alla spiaggia di Yuigahama. Scendendo verso il mare, a metà strada abbiamo noleggiato delle biciclette, raggiunto la spiaggia e messo i piedi a bagno in quelle che abbiamo ribattezzato le Maldive del Cemento, osservando i lavori di allestimento degli stabilimenti balneari che, a quanto pare, vengono completamente smantellati in inverno. Sopra di noi, il volo elegante di maestose poiane, versione nipponica del goffo gabbiano occidentale, pronte a scendere in picchiata su cibi, e infanti, lasciati incautamente incustoditi sulla spiaggia.
Abbiamo proseguito quindi la pedalata sotto il sole cocente fino al Tempio Kōtoku-in dove si trova il buddha gigante, statua monumentale in bronzo di Amida Buddha, una delle più famose icone del Giappone: con i suoi 13,35 metri di altezza, è la seconda per dimensioni dopo quella che vedremo nel santuario Tōdai-ji a Nara.






Trascorriamo i successivi giorni a Tokyo, dando un’occhiata a tutto quello che riusciamo, senza correre, ma macinando chilometri e chilometri fuori e dentro negozi, parchi, store, ristoranti, pub, templi. Visitiamo prima di tutto il quartiere di Asakusa (che si pronuncia asacsa), con il suo bellissimo e affollatissimo Kaminari Mon, il portale dal quale si accede alla Nakamise Dori, antica via dello shopping, oggi regno dei souvenir made in China, alla cui fine si staglia il celebre Sensoji, il complesso templare buddista più antico della città, dove è possibile purificarsi con l’incenso che brucia costantemente nel grande bruciatore votivo.



Subito dopo esserci purificati, ci dirigiamo da Kagetsudo, un chioschetto in una bella galleria dietro il tempio, per strafogarci di melonpan (altra variante del pan di spagna) appena sfornati farciti con gelato al biscotto e golose fragole caramellate. Da non perdere, a pochi passi, la sosta per una colazione/pranzo veramente japan style da Maguro Bito: sushi in piedi, dove assaporare, tra gli altri bocconi prelibati, il delizioso e raro kama-toro (parte pregiata del tonno) che si scioglie in bocca.



Con la metro ci spostiamo quindi al Parco Ueno, famoso per lo zoo con i panda (immagine ricorrente ovunque in questa zona), per una passeggiata fino al tempio Kiyomizu Kannon-do; scendiamo verso lo stagno Shinobazu ricoperto di vegetazione e ricco di immancabili carpe, e ci fermiamo a riposare un po’ sotto una pergola fuori dal tempio Bentendo.
Dato che pioviggina, ci spostiamo nel quartiere dell’elettronica, Akihabara, dove facciamo un giro da Yodobashi Camera (Media World dopo una cura di steroidi scappata di mano), il negozio di elettronica più grande di tutto il Giappone, completamente imbottito di cartelloni, slogan, scritte, manifesti che non si capisce come possano essere processati tutti insieme dal cervello umano: ne usciamo storditi e senza aver acquistato ovviamente nulla. Prendiamo il sottopassaggio che porta all’altro lato del quartiere, dove si trovano un’infinità di negozi di action figure, manga, anime, videogiochi, disseminato di ragazzine vestite da manga che invitano ad entrare nei molti maid-cafe; nonostante l’aspetto micettoso, sono piuttosto tristi e la sensazione e che ci sia ben poco da divertirsi a stare lì.
Passiamo quindi oltre, non dopo aver buttato qualche yen in una delle mega sale giochi GIGO ricolme di macchinette per cui il Giappone, inspiegabilmente, va matto: quelle dove inserisci monetine e ottieni in cambio palline di plastica con sorpresine micragnose di ogni genere (sparse a migliaia, ovunque) e le disonestissime claw crane, con cui puoi provare inutilmente ad afferrare un premio con l’ausilio di manine elettroniche focomeliche. Il lato decisamente più oscuro e incomprensibile di una civiltà apparentemente evoluta.



Dopo una passeggiata a Ginza, il quartiere della moda, e uno sguardo alla sfilata di vetrine e palazzi di lusso parcheggiati uno dopo l’altro come yotch a Porto Cervo, attraversiamo il Tokyo International Forum, struttura affascinante in cui incontriamo un robottino vigilantes che ringrazia e spara luci a casaccio, e arriviamo alla stazione Tokyo dove ceniamo vegano (e piccante) da T’s Tantan.
Chiudiamo anche questa delirante giornata in un altro scorcio imperdibile di Tokyo: Yurakucho Yokocho, un balzo in una dimensione fuori dal tempo fatta di izakaya ricavati sotto i binari della ferrovia sopraelevata. Fumi, vapori, muri di ventole di condizionatori, risate, treni che sferragliano, musicanti di strada… un luogo altro davvero unico, dove non ci saremmo stupiti di vedere atterrare taxi volanti così come arrostire yakitori di blatte giganti.



Nonostante giugno sia un mese piovoso, siamo fortunati e becchiamo solo un giorno veramente brutto a Tokyo, che ci permette tra l’altro di scoprire quanto è affascinante il Giappone sotto la pioggia e che gli ombrelli gocciolanti qui non hanno vita lunga: o li insacchetti o li asciughi o li ingoi, oppure, se sei abbastanza ricco, li parcheggi nel tuo posto ombrello privato. Nota pro futuro: gli alberghi li forniscono su richiesta, comodi, grandi e trasparenti, così la visuale è sempre ottima!



Utilizziamo la giornata più uggiosa per dormire fino a tardi e recuperare un po’ di energie e di scombussolamento da fuso, per poi dedicarci alla nostra attività preferita… Brunch d’ordinanza con fluffy pancake di dimensioni imbarazzanti – il mio, senza vergogna e fuorilegge in Europa, grande come un piatto da dessert, ripieno di crema al mascarpone – e fluffy french toast (ancora più buono dei primi) da Original Pancake nel centro commerciale Lumine Est dell’immensa stazione di Shinjuku.



Digeriamo il tutto raggiungendo prima la Tokyo Tower, una Torre Eiffel che non ce l’ha fatta, dove, vista la scarsa visibilità, rinunciamo a salire e, ormai in preda alla dipendenza da zuccheri raffinati, passiamo in rassegna tutti i dolcetti maniacalmente perfetti proposti ai turisti al suo interno. Questa volta propongono mini castella a forma di torre, di fragola, di ondina, di pulcino e di banana Doraemon. Il fegato, e un po’ tutti gli organi interni, ci invitano a passare oltre; Chiara, invece, in pieno trip Sanrio, compra il terzo gadget del personaggio Kuromi, ribattezzato per l’occasione “Kurati”.



Trascorriamo il resto della serata passeggiando nel bellissimo quartiere di Chiyoda, vicino alla stazione Tokyo, che ospita i tre santuari del Palazzo Imperiale e il Fukiage Ōmiya Palace, residenza della defunta imperatrice vedova Kōjun. Alcune parti, come i Giardini Orientali e il Kitanomaru Park, sono aperti al pubblico, mentre solo due volte all’anno, per il compleanno dell’imperatore e per Capodanno, è permesso entrare nel terreno fino al Kyuden, dove la famiglia imperiale appare sul balcone. Passeggiamo affascinati tra un immenso parco di ordinati pini giapponesi circondato da un infinito anello di grattacieli e una serie di fossati, nelle cui acque mucillagini e muschi creano bellissime sfumature di verde sotto il cielo grigio.




Chiudiamo quindi l’ultima giornata a Tokyo tornando a Shibuya, percorrendo ancora una volta il mitico incrocio per raggiungere la cena memorabile che ci attende da Hanno Daidokoro Bettei – prenotata sul loro sito – a base di carne di kobe cotta direttamente al tavolo. Esperienza super fin dall’ingresso, quando tutto il personale ci ha accolti, fermandosi un minuto, con un inchino e un saluto corale, un’ospitale litania che comprende il mitico arigatogosaimaaaassss e altre formule magiche recitate con il sorriso di Pollon dopo una striscia di sembra talco ma non è.
A-do-ra-bi-li! Ci sediamo quindi in una stanza nera e oro, tutta per noi, tavolo con griglia al centro e campanello per chiamare il servizio: ordiniamo tutto e inizia un balletto di piatti, piattini, inchini, sorrisini, bocconcini, salutini. Wow!



Brindiamo alla nostra Tokyo experience con una degustazione – terribile – di sake e amazake in un locale di Shibuya. Ringraziamosaimaaasssss e leviamo le tende.
Domani mescoleremo le lettere e Tokyo diventerà Kyoto.